Il rifiuto della tradizione nella Chiesa globalizzata
Il 21 maggio di dieci anni fa, Dominique Venner, nella cattedrale di Notre Dame,a Parigi, poneva fine alla sua vita sparandosi un colpo di pistola alla tempia. Il suo gesto voleva essere una forma di protesta contro il progressivo disfacimento, ad opera dell’odierna società, dei valori tradizionali ed identitari europei, primi fra tutti la famiglia. Sul biglietto d’addio scrisse queste parole: “Io mi do la morte al fine di risvegliare le coscienze assopite”. A dieci anni di distanza da quell’evento eclatante, gesto che comunque non condivido né cristianamente, né umanamente, dobbiamo constatare l’inutilità dell’immolazione dello storico francese. Sei anni dopo la morte di Venner, la stessa cattedrale di Notre Dame fu distrutta da un incendio (mai classificato come doloso); quando saranno completati i lavori di ricostruzione (si parla di dicembre 2024), molto probabilmente, la cattedrale gotica cambierà destinazione. Non più edificio di culto assegnato alla Chiesa cattolica, ma struttura per eventi di carattere civile e culturale. Del resto è patrimonio dello Stato francese, il quale è libero di destinarla all’uso che riterrà più opportuno.
Da dieci anni a questa parte gli effetti degli attacchi alla tradizione, culturale e religiosa, sono diventati tangibili anche nella nostra Città. Nel periodo precedente l’ormai tristemente nota pandemia, nella chiesetta di Santa Filomena (annessa al palazzo Genova-Rulli), ogni prima domenica del mese, un sacerdote diocesano, parroco in un paese del vicino Molise, celebrava la messa secondo il rito tradizionale della Messa Tridentina, cioè quella alla quale hanno assistito i nostri genitori ed i nostri nonni, così come le generazioni precedenti, fino alla fatidica data del 1962. È la messa che Papa Benedetto XVI aveva riqualificato nel 2007 con il motu proprio Summorum Pontificum, la cui celebrazione era perfettamente lecita e valida. Purtroppo, però, qualcuno la pensava diversamente da Papa Benedetto, e dai fedeli che tornavano ad apprezzare la sacralità del rito antico. Il sacerdote, quindi, fu invitato, per non dire costretto, a non celebrare più nel territorio di Vasto, né in altro luogo della diocesi. Da allora in poi, la chiesa di S. Filomena, è stata chiusa alla celebrazione della messa di sempre, ma ha spalancato le porte ad eventi musicali, e magari fossero solo di musica sacra.Come la cattedrale di Notre Dame, anche la chiesetta di via Anelli, pian piano si trasformerà in semplice struttura per eventi culturali.
Ma la Tradizione religiosa è stata colpita anche nell’architettura degli edifici sacri. Anche a Vasto, ad esempio, le moderne Chiese di S. Maria del Sabato Santo, e di S. Marco, presentano una struttura circolare: non a caso la circolarità predilige l’idea di assemblea (secondo la riforma liturgica, il sacerdote non celebra l’Eucaristia, bensì “presiede” l’assemblea che celebra l’Eucaristia), e si oppone al concetto di verticalità, proprio della Tradizione, che ispira l’elevazione dell’uomo verso Dio, percorso nel quale, il fedele è condotto dal celebrante.
L’ultimo decennio è stato foriero anche di tante modifiche apportate alla liturgia. Si pensi ad es. alle “correzioni” al Padre Nostro (nessuno mai, prima d’ora, si era accorto che fosse stato tradotto male), al Gloria, dove gli “uomini di buona volontà” diventano “uomini amati dal Signore” (perché prima non lo erano?), all’aggiunta politically correct del vocabolo “sorelle” ogni volta che si pronuncia “fratelli”, ed altre numerose modifiche che vanno dalla preghiera di consacrazione, fino al rito di conclusione. Sono queste, tuttavia, innovazioni che riguardano la Chiesa universale.
Tornando invece nella nostra Vasto, la cosa più sconcertante appalesatasi ai miei occhi è stata l’ostinazione con la quale, nel territorio della diocesi, si continua ad impedire ai fedeli di comunicarsi come hanno sempre fatto, cioè ricevendo l’Eucaristia direttamente sulla lingua. Reca, infatti, la data del 20 aprile di quest’anno, il comunicato dell’Arcivescovo di Chieti-Vasto, inviato a tutti i sacerdoti (a quanto pare a mezzo messaggio su cellulare) con il quale si avverte di continuare a distribuire la comunione eucaristica esclusivamente sulle mani (modalità che è pur prevista, ma come eccezione e non come regola). Fino a domenica scorsa, questa disposizione era ancora in vigore, nonostante la stessa CEI, in data 8 maggio avesse ribadito che tutte le attività liturgiche “possono tornare ad essere vissute nelle modalità consuete precedenti all’emergenza sanitaria”, e nonostante la conferenza dei vescovi, già dal mese di aprile dello scorso anno, avesse acconsentito al ritorno alla modalità tradizionale di distribuzione della comunione. Per non parlare del Codex Iuris Canonici (can. 912) e dell’istruzione Redemptionis Sacramentum, la quale ultima espressamente vieta ai ministri di negare l’Eucaristia ai fedeli (cap. IV, 2, 91). Ma il potere mediatico del telefonino episcopale, evidentemente, supera anche il rigore della legge canonica.
Forse è l’effetto dell’odierna società, che la felice intuizione di Bauman definisce liquida, a produrre spersonalizzazione e perdita d’identità anche nella Chiesa. Tuttavia, più che le polemiche tra tradizionalisti e ideologi del globalismo, sarebbe bene, anche per le gerarchie ecclesiastiche, ricordare le parole di Gesù, quando disse ai discepoli (Mt 5,13) “Voi siete il sale della terra. Ora se il sale diventa insipido, con che gli si renderà il suo sapore? Non è più buono ad altro che ad essere buttato via e calpestato dalla gente”.
I modernisti non si affannino a confrontare il citato brano evangelico con la versione CEI della Bibbia, perché è tratto dalla versione del Ricciotti, anno 1940. Sarà anche “vecchio” ma, secondo me, i sapori della tradizione, hanno più gusto.
Alfonso Di Sanza D’Alena
*nella foto, l’interno della chiesa di Santa Filomena in via Anelli.